venerdì 17 gennaio 2014

Il Calendario delle Studentesse? Le donne islamiche sono segregate tanto quanto voi

Anno nuovo, calendario nuovo!
Ed ecco che quest'anno Duemilaequattordici mi ritrovo a parlare nuovamente del "Calendario delle Studentesse".
Questa volta il titolo del progetto è: Il coraggio è donna.
Strano il caso.

Come già avevo sottolineato in tempi non sospetti sul blog, il progetto, che "abbina da sempre il perseguimento di una missione sociale", ha via via fatto passi da gigante, dando vita a calendari sempre più "scoperti", tali da usare studentesse incaprettate sui binari per rappresentare il made in Italy (!!!) del Calendario 2011 "Italians do it better".



Strano che i fautori della lunga serie di calendari, che dal 2007 mostrano corpi più o meno (s)vestiti, manichini senza storia, oggi si facciano promotori della lotta alla violenza sulle donne.
Quante aziende, quante case di moda, prima alla ricerca della modella più bella e sensuale, ora non vedono l'ora di sbatterla sul cartellone con un occhio nero con lo sguardo indifeso?


Insomma, siamo di fronte alla solita strumentalizzazione del femminicidio per ottenere una pubblicità vincente del prodotto.

La sezione Donne di Fatto, de Il Fatto Quotidiano, con l'articolo di ieri, descrive come il Calendario delle Studentesse celebri "quante, dall’Italia alla Russia, passando per il Medio Oriente, abbiano scelto di liberarsi dai vincoli della sudditanza psicologica, fisica o sessuale di un singolo uomo o di una società maschilista nel suo complesso."



Prendiamo, ad esempio, il mese di agosto in cui la ragazza taglia il niqab per liberare la bocca.

Posto che prima di parlare di niqab, bisognerebbe conoscere qualcosa di più di ciò che dicono i  giornali, giova solo ricordare la frase di Fatima Mernissi, una delle più autorevoli studiose di Islam e femminismo islamico: "ridurre o assimilare l'hijab a uno straccio che gli uomini hanno imposto alle donne per velarle quando camminano per strada, vuol dire davvero impoverire questo termine, se non addirittura svuotarlo del suo significato."


Nawal al-Sa'dawi, scrittrice femminista egiziana, affermò che non si può analizzare correttamente l'Islame e la questione del velo senza un approccio comparativo.
"Ci sono donne che portano il velo come altre usano il trucco: per questo definisco il make-up un velo post-moderno. Essere coperte per dettami religiosi oppure spogliate per leggi di mercato è sempre una forma di schiavitù."

Sulla stessa scia, la Mernissi:
"Mi resi conto che la taglia 42 è forse una restrizione ancora più violenta del velo musulmano. [...] la bellezza, per una donna, è dimostrare quattordici anni. Le donne devono apparire belle, ovvero infantili e senza cervello. Così la frontiera dell'harem europeo separa la giovinezza bella dalla maturità brutta."

Se da un lato, quindi, la donna musulmana viene costretta dietro un velo fisico, la donna occidentale lo è in uno chador tutto occidentale: il trucco, la chirurgia plastica, la moda.

Anche una nostra connazionale, la giornalista Lilli Gruber, affezionata a queste tematiche, nel suo libro Figlie dell'Islam. La rivoluzione pacifica delle donne musulmane, sottolineò come "la visione occidentale della donna musulmana velata, sottomessa ai desideri di dominazione fisica e morale degli uomini, è pericolosa quanto quella fondamentalista che presenta il velo come unico strumento di liberazione dall'influenza degli stereotipi occidentali".

E' tristemente ironico come la lotta alla violenza di genere venga perseguita mettendo in atto stessa violenza, stessa stereotipizzazione e stessa segregazione.

Italiane, siete sicure di essere delle donne libere?









Abbina da sempre il perseguimento di una missione sociale...un medium finalizzato a incentivare la sensibilizzazione dell'opinione pubblica su tematiche di interesse generale.” - See more at: http://ladonnaobsoleta.blogspot.it/2011/11/il-calendario-delle-studentesse-i.html#sthash.jmdV8C5P.dpu

giovedì 16 gennaio 2014

I creativi #CoglioneNo? Colpa dell'Italia #CoglioneSI

Oggi mi sono alzata dal letto a fatica. Leggere determinati "articoli" di prima mattina non fa mai bene.
Sono diventati velocemente famosi e virali i video della campagna #coglioneNO, con la quale si rivendica il dovuto riconoscimento e compenso per il lavoro svolto dai cosiddetti freelance creativi (presumibilmente grafici, designer, registi, scrittori, e chi più ne ha più ne metta).
La ricerca della parità tra i mestieri più noti e "ordinari" (come elettricista o giardiniere) e freelance è qualcosa che ha destato grandi perplessità tra le penne più e meno emerite.



E' vero che il settore in questione è definito da un mercato del compratore, dove l'offerta supera la domanda e dove il creativo diventa un lavoratore non necessario e facilmente sostituibile da chi "si vende per meno".
Quindi è tutta questione di economia di mercato? Si.
Ma potremmo dire che l'economia è disancorata dalla cultura sociale di un Paese? No.
E' ciò che viene comunemente chiamato embeddedness, vale a dire "l'annidamento" delle attività economiche nella società.
La produzione, la distribuzione e il consumo dei beni dipendono infatti da fattori sociali come la cultura, le abitudini, il senso di responsabilità e la reciprocità verso gli altri.

Inutile dire che mio fratello, filmmaker che ha studiato e lavorato a Londra, è stato commissionato, contrattualizzato e retribuito adeguatamente e puntualmente per ogni lavoro da "freelance creativo" svolto in quello strano(!!!) Paese che è l'Inghilterra.

Uno dei rappresentanti della teoria dell'embeddedness è il sociologo Mark Granovetter, il quale osservò, ad esempio, che, dove l'economia è "embedded" in un ambiente dove domina la corruzione o la mafia, le conseguenze sui costi economici non possono che essere negative.

Quello che ha caratterizzato i commenti, articoli, post contrari al video, ribattezzati con l'hashtag #coglioneSI, non è certamente paragonabile ad una reazione mafiosa o corrotta.
E' qualcosa di peggiore.
E' la sagra della mediocrità.

Alcuni esempi.
- Nella maggior parte dei casi il “creativo non pagato” ha studiato “scienze della comunicazione”, facoltà che per sua natura sforna persone insulse, intellettualmente pigre e fortemente impreparate.

- La tua laurea non conta un cazzo. Non attesta la tua capacità di fare effettivamente qualcosa, ma soltanto il fatto che quello che sai fare non l’hai imparato da solo ma te l’hanno insegnato facendosi pagare profumatamente per farlo.
  
- Non devi spiegare al cliente che, se tu stai chiedendo dei soldi e suo cugggino no, è perché quel lavoro tu puoi farlo meglio di suo cugggino. Questo lui lo sa già. E indovina? Non gliene frega un cazzo, perché piuttosto che dover pagare per un lavoro fatto bene preferisce accontentarsi di un lavoro fatto così così ma per cui non deve sborsare un euro. E questo non perché sia un bastardo o perché non rispetti la tua creatività, ma semplicemente perché nella tua creatività non vede alcun valore aggiunto.

- Hai disgraziatamente deciso che avresti fatto un lavoro creativo perché il cantiere non ti avrebbe lasciato abbastanza tempo libero per i selfie

Queste iniziative diventano banchetto per la restante parte del nuovo precariato, bloggers, redattori, giornalisti, che scrivono di quel nuovo video virale sulla cresta dell'onda per assicurarsi visualizzazioni.
Ci sono tanti "giornalisti" che scrivono su importanti testate o parlano nelle edizioni del Tg della nuova crema per le mani usata da Kim Kardashian, ma di questi servizi nessuno si lamenta.
Misteri della fede.

Chi scrive non è nostro padre o nostro nonno, ma giovani come noi.
Giovani che vivono DI tecnologia, che difendono i "mestieri di cantiere" ma, con la loro dipendenza digitale, contribuiscono alla scomparsa di prodotti e servizi.
Magari scrivono anche, tessendone le lodi, della nuova start-up italiana che vince un premio all'estero ed è pronta a partire, non comprendendo che la loro stessa forma mentis è tra le cause della fuga di cervelli.

Insomma, la mancanza di solidarietà, il saccente paternalismo e la critica a-tutti-i-costi stanno avvelenando sempre più il nostro Paese.
Lo stesso Paese che si commuove del leggendario discorso di Steve Jobs a Stanford nel 2005, di quelle parole magiche Stay hungry, stay foolish, ma che alla prima occasione è pronto a negare la meritocrazia, sottovalutare le capacità altrui, adagiarsi sullo status quo, appoggiare i furbetti che sfruttano i giovani e gli imprenditori che non pagano.


sabato 4 gennaio 2014

I "buoni" propositi per l'anno nuovo

Propositi per l'anno nuovo:

1- Ringraziare per il lavoro gratuito che presto ogni giorno.
2- Sapere cosa succede nel mondo grazie ai trend topic di Facebook.
3- Ascoltare i Tg, pane quotidiano di verità.
4- Credere nello spread.
5- Conoscere più personaggi e meno persone.
6- Esprimere tanti "mi piace" e poche opinioni.
7- Guardare più il "profilo" che gli occhi altrui.
8- Circondarmi di persone che non mi mettano mai in discussione.
9- Essere più "selfie" e meno sexy.
10- Avere un amico gay, perchè "loro sono troppo simpatici e sensibili".
11- Trovare il principe azzurro col cavallo basso.
12- Vestirmi adeguatamente la sera che, semmai, "me la sono cercata".

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