martedì 28 ottobre 2014

Il femminicidio per gli italiani: tutta colpa di razza e cultura straniere.

E' domenica sera quando si registra l'ennesima violenza nei confronti di una donna. Questa volta si parla della mia città, Catania, e di una ragazza prossima alla mia età, Veronica, 30 anni, uccisa dall'ex fidanzato nella sua macchina.
Dire che fatti del genere generano orrore, rabbia e paura, è una cosa scontata. Sarei l'ennesima persona a gridare contro l'ennesimo femminicidio, contro la mancanza delle istituzioni, di leggi adeguate, di mancati finanziamenti verso centri preposti a che questo non accada.
Quello di cui voglio parlare, infatti, non è tanto il fatto (purtroppo) compiuto, quanto le origini dello stesso.

Perché dire che Veronica è stata uccisa da un senegalese non aiuta.
Perché dire che tante ragazze sbagliano scegliendo di stare con ragazzi di colore non aiuta.
Perché dire che questa violenza ce la siamo cercata, non ascoltando lo #stopimmigrazione, l'emergenza ebola, e non rimandando i barconi indietro, non aiuta.
Perché dire che "moglie e buoi dei paesi tuoi" è meglio, non aiuta.























Tutto questo non aiuta perché sposta l'attenzione al problema.
Il problema per cui una donna ha la probabilità di morire non solo per tumori, incidenti, malattie, ma anche per mano del proprio partner o ex. E ciò a prescindere da pelle, razza o cultura.
E' degno di rilievo il progetto della Casa delle donne di Bologna, stopfemminicidio.it: "Impara a conoscere il fenomeno per poterlo combattere".
Forse dobbiamo ricordarci che i casi di femminicidio sono 1036.
Che su 1036 casi, 774 hanno avuto come autore un uomo di nazionalità italiana.
E che, quindi, il 75% delle donne uccise ha avuto un assassino italiano.
Ma questa è una notizia che ormai ci aspettiamo e che, per tal motivo, ci lascia indifferenti, mentre ascoltiamo il tg a tavola, di fronte ad un bel piatto di pasta.


Vi siete mai chiesti, voi italiani di qualunque genere, cosa fate personalmente, nel vostro quotidiano, perché questo non accada?
Vi siete mai chiesti cosa pensate delle donne?
Troppo emancipate economicamente? Troppo emancipate sessualmente?

Perché usare Facebook per fare i social-moralisti, postando frasi strappalacrime in bacheca, è alquanto inutile se poi vi fate due risate con stereotipi del genere:



Come è alquanto inutile, oltre che patetico, cavalcare l'onda della popolarità di un fatto, creando un proprio video su Facebook dove ci si sistema la chioma e si implora di essere condivisi.
"Per Veronica, perché nel 2014 non possono esistere queste cose". Ma solo nel 2014.




E' vero, in fondo, è soltanto tutta colpa di un negro.




venerdì 24 ottobre 2014

I giovani d'oggi e il precariato emotivo: è davvero tutta colpa della crisi?

Se il futuro dei giovani d'oggi è incerto, una cosa può esser detta: i giovani non amano più.
Almeno, non liberamente.

La questione non si riduce alla ragione, seppur valida, per cui a maggiore condivisione telematica sta corrispondendo una minore compassione umana. Se è vero che la facilità di acquisire maggiori informazioni sugli altri ci ha reso diametralmente più indifferenti agli stessi, è vero anche che si è persa l'empatia nei confronti delle persone che ti trovi accanto da tempo, e non solo verso quelle dall'altra parte dello schermo.


E' tutta colpa, allora, del modus comunicandi della nostra era? Io non credo.
Più del pettegolezzo di Facebook, del cinguettio di Twitter, dell'egocentrismo di Instagram, una cosa sta profondamente cambiando i giovani nei loro rapporti sociali: la disoccupazione.
Ci hanno insegnato che il lavoro nobilita l'uomo e che compiere il lavoro che si ama è la migliore approssimazione di felicità sulla terra.
Ma cosa succede quando manca? Può il lavoro definire tutto ciò chi siamo?

Una recente indagine del sito "It's just a lunch", riportata dall'Huffington Post, mostra che se il 75% delle donne intervistate probabilmente non uscirebbe con un uomo che non lavora, la maggior parte degli uomini avrebbe difficoltà ad intraprendere una relazione seria in mancanza di una propria stabilità economica.
La donna vorrebbe accanto un uomo che sappia mantenerla e dimostrare impegno verso qualcosa, l'uomo non potrebbe mostrarsi vulnerabile di fronte ad una situazione di bisogno.
Lo spot dell'ultimo profumo col famoso attore di turno ci dice "Rimani concentrato. Sii uomo. Un uomo di successo. L'uomo di oggi."
Non costituisce tutto ciò un grande stereotipo? Si. Ma è reale.


E' antica quanto i dinosauri la creanza per cui un uomo non è abbastanza virile o forte se non ha un lavoro, se non lo ha di successo o se non è capace di prendersi cura economicamente della famiglia.
Quanto questo può influire, in termini di ansie, paure e responsabilità per un uomo disoccupato o precario?
Non è una esagerazione parlare di precariato emotivo. Alcuni psicoanalisti la chiamano addirittura anoressia sentimentale.
Il tempo di crisi diventa una ragione accettabile di egoismo ed individualismo, per cui se non si è "felici" lavoratori, non si può essere impegnati sentimentalmente. Insomma, l'uno esclude l'altro.  
Ecco che essere single diventa una comodità, una condizione di convenienza contro le troppe aspettative del compagno/a. Come se un lavoro non sia fatto delle stesse capacità di team building, di flessibilità costruttiva, di dialogo ed ascolto, che dovrebbero esistere all'interno di una coppia.
Come se spostarsi da un Paese all'altro porti a cambiamenti drastici di valori e sentimenti. Solitamente ciò che cambia è solo la gabbia, respirando lo stesso conformismo sotto lo stesso cielo.
Insomma, mantenere una relazione a lungo termine, potrebbe rivelarsi un impegno troppo grande, a dispetto degli ipotetici trasferimenti, traslochi, stage non retribuiti, programmi Erasmus Plus, scambi internazionali.
Insomma giovani, è davvero tutta colpa della crisi?


Ne parla bene Alessia Bottone, con una laurea, un blog, tanti stage sulle spalle, nel suo libro "Amore ai tempi dello stage. Manuale di sopravvivenza per coppie di precari", che spiega come la figura pericolosa dell'amante sia stata sostituita da quella della "Crisi".
"E' la crisi il terzo nella coppia, l'elemento che decide se è il caso o meno di continuare la storia." 

 Anche il palermitano Walter Giannò, nel suo libro "Amore precario", evidenzia in maniera tragicomica le spaventose dinamiche del precariato in cui si imbattono  i giovani d’oggi, nell’impossibilità di coltivare serenamente un futuro in una società arrugginita, malata.


Forse il detto "due cuori e una capanna" è eccessivo, ma è diventato così patetico/utopico credere nell'esistenza di persone che, nonostante le difficoltà, riescano a sorriderti gridando "Buongiorno principessa"?
Perchè se la vita è precaria non è detto che debbano esserlo anche le relazioni.


venerdì 25 luglio 2014

Prova costume e "size discrimination"? Stay calm and put a #fatkini on your body.

Il fenomeno della "prova costume" attanaglia gran parte della popolazione femminile alle prime luci di giugno. Ecco che le pubblicità di yogurt, cereali, bevande, non fanno altro che ricordarti l'arrivo dell'estate, insieme ai corpi stupendi delle modelle delle aziende di costumi. La domanda che incombe è: come avere un corpo da bikini?



Beh, semplicemente indossandolo.



Ecco la risposta tutta americana che, da piccola eco della scorsa estate, si è trasformata quest'anno in una vera moda, un'attitude che porta con sè un sigillo, il fatkini.




  
Il fatkini è un costume a due pezzi che celebra le taglie curvy, divenuto famoso soprattutto quando Gabi Fresh, styleblogger, lo ha indossato incoraggiando le donne oversize a non vergognarsi delle proprie forme, e ne ha creato una collezione con il sito Swimsuits For All.


La fama dell'iniziativa ha fatto sì che molte ragazze riuscissero finalmente a mettersi in mostra col loro fisico senza subire l'imbarazzo delle reazioni esterne.






"Thick or thin I love myself."
"Oh, no worries. I'll just be over here, wearing stuff you think I shouldn't." 

Applausi.






Recente è il caso di Sam Newman, una ragazza sovrappeso che ha accusato Instagram di "size discrimination" per aver cancellato delle sue foto in abbigliamento intimo: “Le mie foto non si adattano alla loro idea di normalità”.
Che Instagram adotti una politica dubbia sulla fisicità e propenda a censurare foto del genere piuttosto che immagini legate ad autolesionismo o disturbi alimentari, ne avevo già parlato qui.



Ad ogni modo, è importante che le persone sovrappeso, almeno fuori dall'Italia, stiano riuscendo a liberarsi dalla paura della gente, dei loro pregiudizi estetici e di quella percezione culturale che decide cosa è bello da cosa non lo è.
Lo ha spiegato molto bene la blogger Jenny Trout, che sul suo blog e su HuffPost Women, ha pubblicato un articolo dal titolo: "I wore a bikini and nothing happened", inserendo una sua foto in costume.
  
"As a society, we need to be more honest in our discussions of other's bodies. If we can't avoid those totally unnecessary conversations, then we should at least admit the truth to ourselves: That this has nothing to do with health, and everything to do with the control we believe is our right to exert over others."





"Come società, abbiamo bisogno di essere più onesti nei nostri discorsi sui corpi degli altri. Se non possiamo evitare quelle conversazioni totalmente inutili, allora dovremmo almeno ammettere la verità a noi stessi: che questo non ha nulla a che fare con la salute, e tutto ha a che fare con il controllo che crediamo sia nostro diritto esercitare sugli altri."



 

mercoledì 18 giugno 2014

Morale e denaro: la contraddizione del Moige

Si è svolta ieri presso la cerimonia di consegna del “Premio Conchiglia Moige”, il riconoscimento tutto italiano per programmi e spot che vengono definiti "family friendly", perchè adatti per tutta la famiglia e, soprattutto, per i minori.Il premio quest'anno è stato assegnato a 8 fiction, 6 programmi di intratte nimento, 4 per ragazzi e 9 spot.
Tra i vincitori hanno ritirato il premio anche i conduttori Carla Gozzi e Enzo Miccio e la Vice Presidente Content and Programming di Discovery Italia Laura Carafoli, per il reality “Ma come ti vesti”, di Real time.
La motivazione? “Per aver insegnato a valorizzare il proprio aspetto fisico utilizzando poche risorse a disposizione, parlando più di stile che di moda, nel rispetto della propria personalità, trasmettendo buon gusto e piacere di guardarsi da un altro punto di vista”.

Scopro inoltre che è il terzo anno consecutivo che questa rete si aggiudica il premio.
“Siamo felici e onorati, anche quest’anno, di ricevere l’importante riconoscimento del Moige perché è in linea con gli obiettivi editoriali del nostro gruppo, Discovery Italia. In particolare con il canale Real Time – 8° canale nazionale - da sempre siamo molto attenti a proporre programmi di qualità e adatti ad una visione familiare. Inoltre, il genere di cui siamo stati pionieri, il factual entertainment, è amatissimo dal pubblico di tutte le età”. (L.Carafoli)

Il factual entertainment, per la Vice Presidente, è dato dall'intrattenimento ispirato alle attività di tutti i giorni e dalla cosidetta "aspirazionalità accessibile", con l'offerta di contenuti come "la casa perfetta, il matrimonio dei sogni, il guardaroba ideale".
Che il canale abbia sempre veicolato l'idea della donna omologata con i tratti della perfetta donnina di casa, maniaca dello shopping compulsivo, è risaputo, come anche il pericolo che ciò possa essere impronta diseducativa nel caso di un programma per bambine come "Guardaroba perfetto kids&teens"(della cui storia e petizione rinvio). 

Ciò di cui mi stupisco è invece il Moige, Movimento Italiano Genitori, e non perchè sia fan del movimento che spesso - a ragion veduta - viene criticato per l'atteggiamento troppo bigotto e censorio.
Ciò che mi sembra strano è aver ricevuto, in occasione della petizione di cui sopra, da Elisabetta Scala (Vice Presidente e responsabile dell’Osservatorio Media del Moige) una mail di risposta, dove si consideravano "opportune" le mie osservazioni sul programma, con relativo monitoraggio comunicato via Twitter.



Mi chiedo: come si può, "per opportune considerazioni", monitorare un programma e premiare allo stesso tempo chi l'ha messo in onda?

Le critiche sulla effettiva imparzialità del movimento non si arrestano quando esso stesso ha aziende che contribuiscono economicamente come partner per le loro campagne.
L'ultima tra tutte, "Sos tabacco minori", campagna di sensibilizzazione sul problema del contrabbando di sigarette, è finanziata da Philip Morris, BAT, Japan Tobacco e FIT, Federazione Italiana Tabaccai, ed ha ricevuto aspre obiezioni da Giacomo Mangiaracina (direttore scientifico dell’Area Tabagismo della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori e presidente dell’Agenzia Nazionale per la Prevenzione), proprio per la contraddizione insita nelle loro iniziative.
"Sono prive di efficacia, condannate dalla comunità scientifica e in grado di promuove subdolamente il friendly marketing, ovvero un'immagine amichevole del fabbricante e del venditore di tabacco. E' come dire a un pedofilo di fare educazione sessuale nelle scuole."

Morale o denaro? Questo è il dilemma. 
Insomma Moige, da che parte stai?

lunedì 16 giugno 2014

Io non sono #mediacomplice. Un assassino è un assassino.


Non sono un #mediacomplice!
Quando una donna è assassinata #nonraccontoscuse!

A tutti i media, bloggers, mezzi di informazione, utenti del web: assumiamoci la responsabilità di cambiare il linguaggio utilizzato nel raccontare l'assassinio di una donna!

Adottiamo il "bollino"di Anarkikka, ad indicare la nostra adesione ad una comunicazione corretta e rispettosa delle donne vittime di violenza.










Basta con notizie ed articoli di cronaca che usano termini ed aggettivi che implicitamente tendono a giustificare la violenza nei confronti delle donne: "un uomo geloso, abbandonato, invaghito di una collega…".




 Un uomo che uccide una donna è solo un uomo che ha ucciso una donna, un omicida. 









Abbiamo aperto un gruppo ed un evento su Facebook.
Condividete e partecipate!








giovedì 24 aprile 2014

Instagram: "Non permetteremo la promozione dei disturbi comportamentali". Bugia o fallimento manifesto?

E' il 2012 quando i webmagazine riportano la notizia: "Instagram si schiera contro autolesionismo, anoressia e bulimia". 
L'articolo sottolineava la politica della famosa applicazione gratuita nell'ostacolare la condivisione di immagini che sollecitassero disturbi del comportamento alimentare o qualsiasi forma di autolesionismo.
"Andando avanti, non permetteremo la sopravvivenza di alcun account, immagine, hashtags che promuovino o glorifichino comportamenti errati. Incoraggiamo fortemente le persone ad aiutare loro stesse o chiunque stia soffrendo. Riconosciamo l’importanza della comunicazione come forma di supporto, così da creare attenzione e poter essere di aiuto nel recupero delle persone vittime di queste situazioni."
Peccato che ciò sia una grande bugia o un fallimento manifesto.
E' facilissimo aprire l'app e imbattersi in quella serie di account, foto o hashtags che Instagram non avrebbe dovuto permettere.
Prendendo come esempio il tema dell'anoressia, cliccando semplicemente #ana il risultato è di 3.938.777 medias. Di seguito altri esempi di hashtags e di profili per la maggior parte aperti:


Ciò che si trova all'interno è il vero mondo dell'anoressia, fatto di #binge & #purge, di calorie centellinate, di attenzione alla fuoriuscita delle ossa del corpo, dal collo alle costole, al bacino, alle gambe.
Un disturbo che non fa distinzioni di genere e che colpisce, a dispetto degli stereotipi, anche molti ragazzi, che la chiamano #manorexia.






Ecco cosa diventa Instagram: un sipario in cui molti giovani mettono in mostra il loro percorso fisico e psicologico, le vittorie nel saltare i pasti, le fasi del dimagrimento, gli sbalzi di umore.





L'esempio della ragazza riportata nelle immagini a destra mostra il cammino della malattia e gli apprezzamenti esterni con likes e  commenti.




Una continua insoddisfazione, volta spesso all'autolesionismo e agli istinti suicidi, che cerca, nella esposizione social, likes e commenti come conferma, aiuto, supporto.


La moda del #wannabeskinny, oltre che essere veicolata dal sistema commerciale e sociale, trova quindi adesso un altro mezzo di diffusione, molto più istantaneo e più forte, perchè mette a nudo persone reali e gli effetti dei disturbi comportamentali, con maggiore immedesimazione e coinvolgimento.

Inutile dire che la politica di Instagram, limitata alle segnalazioni degli utenti, sia fallimentare. All'interno della piattaforma girano persino "anorexia-advice" che istruiscono su come diventare degli "ana" di tutto rispetto.

Credo che qualcosa debba essere fatto.



venerdì 17 gennaio 2014

Il Calendario delle Studentesse? Le donne islamiche sono segregate tanto quanto voi

Anno nuovo, calendario nuovo!
Ed ecco che quest'anno Duemilaequattordici mi ritrovo a parlare nuovamente del "Calendario delle Studentesse".
Questa volta il titolo del progetto è: Il coraggio è donna.
Strano il caso.

Come già avevo sottolineato in tempi non sospetti sul blog, il progetto, che "abbina da sempre il perseguimento di una missione sociale", ha via via fatto passi da gigante, dando vita a calendari sempre più "scoperti", tali da usare studentesse incaprettate sui binari per rappresentare il made in Italy (!!!) del Calendario 2011 "Italians do it better".



Strano che i fautori della lunga serie di calendari, che dal 2007 mostrano corpi più o meno (s)vestiti, manichini senza storia, oggi si facciano promotori della lotta alla violenza sulle donne.
Quante aziende, quante case di moda, prima alla ricerca della modella più bella e sensuale, ora non vedono l'ora di sbatterla sul cartellone con un occhio nero con lo sguardo indifeso?


Insomma, siamo di fronte alla solita strumentalizzazione del femminicidio per ottenere una pubblicità vincente del prodotto.

La sezione Donne di Fatto, de Il Fatto Quotidiano, con l'articolo di ieri, descrive come il Calendario delle Studentesse celebri "quante, dall’Italia alla Russia, passando per il Medio Oriente, abbiano scelto di liberarsi dai vincoli della sudditanza psicologica, fisica o sessuale di un singolo uomo o di una società maschilista nel suo complesso."



Prendiamo, ad esempio, il mese di agosto in cui la ragazza taglia il niqab per liberare la bocca.

Posto che prima di parlare di niqab, bisognerebbe conoscere qualcosa di più di ciò che dicono i  giornali, giova solo ricordare la frase di Fatima Mernissi, una delle più autorevoli studiose di Islam e femminismo islamico: "ridurre o assimilare l'hijab a uno straccio che gli uomini hanno imposto alle donne per velarle quando camminano per strada, vuol dire davvero impoverire questo termine, se non addirittura svuotarlo del suo significato."


Nawal al-Sa'dawi, scrittrice femminista egiziana, affermò che non si può analizzare correttamente l'Islame e la questione del velo senza un approccio comparativo.
"Ci sono donne che portano il velo come altre usano il trucco: per questo definisco il make-up un velo post-moderno. Essere coperte per dettami religiosi oppure spogliate per leggi di mercato è sempre una forma di schiavitù."

Sulla stessa scia, la Mernissi:
"Mi resi conto che la taglia 42 è forse una restrizione ancora più violenta del velo musulmano. [...] la bellezza, per una donna, è dimostrare quattordici anni. Le donne devono apparire belle, ovvero infantili e senza cervello. Così la frontiera dell'harem europeo separa la giovinezza bella dalla maturità brutta."

Se da un lato, quindi, la donna musulmana viene costretta dietro un velo fisico, la donna occidentale lo è in uno chador tutto occidentale: il trucco, la chirurgia plastica, la moda.

Anche una nostra connazionale, la giornalista Lilli Gruber, affezionata a queste tematiche, nel suo libro Figlie dell'Islam. La rivoluzione pacifica delle donne musulmane, sottolineò come "la visione occidentale della donna musulmana velata, sottomessa ai desideri di dominazione fisica e morale degli uomini, è pericolosa quanto quella fondamentalista che presenta il velo come unico strumento di liberazione dall'influenza degli stereotipi occidentali".

E' tristemente ironico come la lotta alla violenza di genere venga perseguita mettendo in atto stessa violenza, stessa stereotipizzazione e stessa segregazione.

Italiane, siete sicure di essere delle donne libere?









Abbina da sempre il perseguimento di una missione sociale...un medium finalizzato a incentivare la sensibilizzazione dell'opinione pubblica su tematiche di interesse generale.” - See more at: http://ladonnaobsoleta.blogspot.it/2011/11/il-calendario-delle-studentesse-i.html#sthash.jmdV8C5P.dpu

giovedì 16 gennaio 2014

I creativi #CoglioneNo? Colpa dell'Italia #CoglioneSI

Oggi mi sono alzata dal letto a fatica. Leggere determinati "articoli" di prima mattina non fa mai bene.
Sono diventati velocemente famosi e virali i video della campagna #coglioneNO, con la quale si rivendica il dovuto riconoscimento e compenso per il lavoro svolto dai cosiddetti freelance creativi (presumibilmente grafici, designer, registi, scrittori, e chi più ne ha più ne metta).
La ricerca della parità tra i mestieri più noti e "ordinari" (come elettricista o giardiniere) e freelance è qualcosa che ha destato grandi perplessità tra le penne più e meno emerite.



E' vero che il settore in questione è definito da un mercato del compratore, dove l'offerta supera la domanda e dove il creativo diventa un lavoratore non necessario e facilmente sostituibile da chi "si vende per meno".
Quindi è tutta questione di economia di mercato? Si.
Ma potremmo dire che l'economia è disancorata dalla cultura sociale di un Paese? No.
E' ciò che viene comunemente chiamato embeddedness, vale a dire "l'annidamento" delle attività economiche nella società.
La produzione, la distribuzione e il consumo dei beni dipendono infatti da fattori sociali come la cultura, le abitudini, il senso di responsabilità e la reciprocità verso gli altri.

Inutile dire che mio fratello, filmmaker che ha studiato e lavorato a Londra, è stato commissionato, contrattualizzato e retribuito adeguatamente e puntualmente per ogni lavoro da "freelance creativo" svolto in quello strano(!!!) Paese che è l'Inghilterra.

Uno dei rappresentanti della teoria dell'embeddedness è il sociologo Mark Granovetter, il quale osservò, ad esempio, che, dove l'economia è "embedded" in un ambiente dove domina la corruzione o la mafia, le conseguenze sui costi economici non possono che essere negative.

Quello che ha caratterizzato i commenti, articoli, post contrari al video, ribattezzati con l'hashtag #coglioneSI, non è certamente paragonabile ad una reazione mafiosa o corrotta.
E' qualcosa di peggiore.
E' la sagra della mediocrità.

Alcuni esempi.
- Nella maggior parte dei casi il “creativo non pagato” ha studiato “scienze della comunicazione”, facoltà che per sua natura sforna persone insulse, intellettualmente pigre e fortemente impreparate.

- La tua laurea non conta un cazzo. Non attesta la tua capacità di fare effettivamente qualcosa, ma soltanto il fatto che quello che sai fare non l’hai imparato da solo ma te l’hanno insegnato facendosi pagare profumatamente per farlo.
  
- Non devi spiegare al cliente che, se tu stai chiedendo dei soldi e suo cugggino no, è perché quel lavoro tu puoi farlo meglio di suo cugggino. Questo lui lo sa già. E indovina? Non gliene frega un cazzo, perché piuttosto che dover pagare per un lavoro fatto bene preferisce accontentarsi di un lavoro fatto così così ma per cui non deve sborsare un euro. E questo non perché sia un bastardo o perché non rispetti la tua creatività, ma semplicemente perché nella tua creatività non vede alcun valore aggiunto.

- Hai disgraziatamente deciso che avresti fatto un lavoro creativo perché il cantiere non ti avrebbe lasciato abbastanza tempo libero per i selfie

Queste iniziative diventano banchetto per la restante parte del nuovo precariato, bloggers, redattori, giornalisti, che scrivono di quel nuovo video virale sulla cresta dell'onda per assicurarsi visualizzazioni.
Ci sono tanti "giornalisti" che scrivono su importanti testate o parlano nelle edizioni del Tg della nuova crema per le mani usata da Kim Kardashian, ma di questi servizi nessuno si lamenta.
Misteri della fede.

Chi scrive non è nostro padre o nostro nonno, ma giovani come noi.
Giovani che vivono DI tecnologia, che difendono i "mestieri di cantiere" ma, con la loro dipendenza digitale, contribuiscono alla scomparsa di prodotti e servizi.
Magari scrivono anche, tessendone le lodi, della nuova start-up italiana che vince un premio all'estero ed è pronta a partire, non comprendendo che la loro stessa forma mentis è tra le cause della fuga di cervelli.

Insomma, la mancanza di solidarietà, il saccente paternalismo e la critica a-tutti-i-costi stanno avvelenando sempre più il nostro Paese.
Lo stesso Paese che si commuove del leggendario discorso di Steve Jobs a Stanford nel 2005, di quelle parole magiche Stay hungry, stay foolish, ma che alla prima occasione è pronto a negare la meritocrazia, sottovalutare le capacità altrui, adagiarsi sullo status quo, appoggiare i furbetti che sfruttano i giovani e gli imprenditori che non pagano.


sabato 4 gennaio 2014

I "buoni" propositi per l'anno nuovo

Propositi per l'anno nuovo:

1- Ringraziare per il lavoro gratuito che presto ogni giorno.
2- Sapere cosa succede nel mondo grazie ai trend topic di Facebook.
3- Ascoltare i Tg, pane quotidiano di verità.
4- Credere nello spread.
5- Conoscere più personaggi e meno persone.
6- Esprimere tanti "mi piace" e poche opinioni.
7- Guardare più il "profilo" che gli occhi altrui.
8- Circondarmi di persone che non mi mettano mai in discussione.
9- Essere più "selfie" e meno sexy.
10- Avere un amico gay, perchè "loro sono troppo simpatici e sensibili".
11- Trovare il principe azzurro col cavallo basso.
12- Vestirmi adeguatamente la sera che, semmai, "me la sono cercata".

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